Mauro Manunza

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Mauro Manunza

RELAZIONE CONCLUSIVA SUL LAVORO SVOLTO nell’ambito del PROGETTO di “Ricerca e approfondimento sull’ Opera del Maestro Antonio Pala” (prima annualità)

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Quella volta che, sprofondato in una poltrona, Antonio Pala si mise a fissare il pavimento, Anita, sua moglie, ebbe un sussulto preoccupato. Gli aveva rivolto la parola e non riceveva risposta. Lui era
assorto, pareva estraneo a tutto e a tutti fuorché a una mattonella: dopo tanto distratto camminarci sopra, d’improvviso s’era accorto che quei segni geometrici, quei motivi appena accennati, quei colori resi tenui e usurati dal calpestio domestico erano animati di una vitale forza ispiratrice. Si alzò, raggiunse il cavalletto e preparò pennelli e tavolozza. Non era un episodio inconsueto. Antonio Pala traeva impulsi creativi dalle forme apparentemente più ordinarie e nei momenti più impensati: una veduta dalla finestra, un incontro per strada, una pietra, un ramo d’albero abbandonato. Se poteva, portava a casa un legno o un sasso e ne studiava contorni, complessione fisica, elementi cromatici, riflessi di luce. Meditava, poi modellava, o scolpiva, o intagliava, o dipingeva, trasformando le impressioni in figure nuove. Non per caso lo hanno definito “artista meditativo”. Inseguiva i suoi pensieri, rifletteva, parlava poco. La sua spiccata riservatezza, per chi non lo conoscesse a fondo, poteva essere scambiata per introversione; ma per scoprirne il vero carattere occorreva vederlo in famiglia, delicato, gioviale, allegrissimo con la moglie e i figli. Gentile con i colleghi, generoso con tutti. Un signore d’altri tempi. Toeddu Pala lo chiamavano affettuosamente a Laerru, dov’era nato e dove tornava – fra i vecchi amici – ogni volta che poteva. Da Laerru aveva dovuto allontanarsi molto presto, per poter seguire gli studi. Appena dodicenne si trasferì a Sassari, dove poi imboccò la strada delle sue aspirazioni iscrivendosi all’Istituto d’arte e conquistando l’attenzione di illustri maestri come Filippo Figari, Stanis Dessy, Mario Delitala, Eugenio Tavolara. Dei quali nei primi tempi subì l’influenza stilistica, prima di affrancarsi per esprimere quel genere personalissimo e inconfondibile che avrebbe caratterizzato il suo lungo percorso di pittore, disegnatore, incisore, scultore. Così, sulle orme dei grandi artisti del primo Novecento sardo, irruppe grande anche lui nella seconda metà del secolo, contribuendo alla complessa opera di rinnovamento pittorico partita da Mauro Manca e cavalcata dalle nuove leve, giovani emergenti, decisi a liberarsi di una storicit consunta, soffocata da ripetitivi impasti “folcloristici” e comunque agganciata a un naturalismo ormai anacronistico. Ma con i movimenti ribellistici dell’epoca, Pala non aveva nulla a che fare. Anche perché non c’erano molti contatti diretti fra lui e i coetanei che operavano a Cagliari e Sassari sollevando scandalo fra i tradizionalisti legati alla “buona pittura”. manunza2
Quando nel capoluogo nascevano e si intersecavano i gruppi “Studio 58” (Pantoli, Fois, Mibelli, Atza, Rossi, Brundu, Ugo) e “Iniziativa” (ancora Pantoli e Brundu, con Staccioli, Mazzarelli, Fantini, Agus, Casula), e quando l’insofferenza al fattore “sardità” trovava teoria nell’ambiente accademico e critico (Corrado Maltese, Mario Ciusa Romagna, Francesco Masala, il giovanissimo Salvatore Naitza), Pala viveva un forzato isolamento a Teulada, paese geograficamente vicino ma culturalmente lontanissimo dai fermenti modernistici della città. A 28 anni aveva ottenuto lì una cattedra d’insegnamento e gli arrivava forse soltanto l’eco dell’operoso brulichio neoavanguardistico che intanto trasformava anche la scuola d’arte sassarese. E purtuttavia marciava in parallelo, escluso dal dibattito, salvo da influenze, privo di modelli pratici e senza stimoli teorici. Confinato nel suo eremo sulcitano, non gli mancava il tempo per dipingere, né era a corto di soggetti. Guardava, pensava, creava, muovendosi anch’egli lungo una linea inconsciamente demitizzante. Stimolante per pittori come Biasi, Cabras, Sini (e restituita da ciascuno secondo la propria chiave interpretativa), Teulada si è rivelata non meno interessante per Antonio Pala, che ritraeva persone e paesaggi, angoli e contesti in modo tutto suo: non gioioso né solare, né etnico, né celebrativo. Diverso il suo occhio, rispetto agli altri, perché non retinico ma psicologico, guidato da convinzione verista e da toni conseguentemente crudi. Dominano, in questo periodo, scenari e soggetti severi, pennellate pastose, colori densi, cupi, sobriamente terrosi. Fisionomie accademicamente imperfette, eppure realistiche. L’indirizzo è chiaramente espressionista e su questa via s’incammina Pala con decisione, attento all’ambiente umano e alla solitudine degli animi. Spalle curve, testa incassata, visi rivolti in direzioni diverse, quattro uomini in dimesso velluto e coppola, i volti afisionomici, siedono attorno al tavolo della bettola, bicchieri di vino in mano, ciascuno prigioniero della propria ermetica individualità, schiacciato dal peso di problemi comuni ma incomunicabili. Abiti marrone, tavolino marrone, sfondo anonimo di sfumature marrone. Un quadro triste. manunza3Gli dicevano “Triste, troppo triste… Cambia!”, e lui sorrideva.  Andava per conto suo Arrivò il momento di cambiare umore, e questo avvenne giacché il suo ruolo di docente lo condusse a Cagliari. Era il 1966 e finalmente cominciò a respirare aria fresca, benché negli anni teuladini non gli fossero mancati del tutto i rapporti con gli ambienti artistici. Dopo il suo esordio a Roma nel ’57 (in una rassegna d’arte giovanile quando aveva appena 23 anni), era stato coinvolto a Cagliari in un paio di mostre collettive la prima delle quali agli Amici del libro, su invito di Nicola Valle; e si era reso conto che i suoi quadri richiamavano interesse. Infatti non aveva tardato ad allestire il suo vernissage ufficiale (al Cenacolo nel 1960): prima esposizione personale di una catena lunghissima che nel successivo mezzo secolo l’avrebbe fatto apprezzare non soltanto in Sardegna ma in Toscana e in Veneto, in Campania e in Puglia, in Umbria e in Lombardia, insomma un po’ dappertutto in Italia, con importanti passaggi a Roma e Parigi. Col mutare del clima artistico assieme a quello sociale e politico, nel decennio fra i Sessanta e i Settanta, matura il nuovo stato d’animo di Toeddu Pala, che si organizza il laboratorio in via Oristano. Vi sistema un torchio, così da poter soddisfare in modo autonomo la passione per la xilografia e l’acquaforte. In quel rifugio fuma molto, prende molti caffè, lavora tra le molte paste ad olio, setole, matite, carboncini, sgorbie, tavolette-matrici, creta, scalpelletti, legno grezzo. Riceve e scambia impressioni con amici artisti (Valerio Pisano, Leo Pes, Piergiorgio Gomez, Renè Rejinich). Il cambiamento più evidente è nell’esito del pennello. Si alleggerisce il peso del colore, mentre si accentua l’inquietudine del segno e si evidenzia attenzione agli eventi sociali, ai turbamenti esistenziali, ai significati. Nella trasformazione creativa, Pala va incontro a un suggestiva rappresentazione extra-realistica, spesso indefinibile e inquietante come un sogno. Un brutto sogno è per esempio l’Apocalisse (1976), rappresentata in uno scenario da incubo con la Morte a cavallo che incombe feroce su edifici incendiati e movimenti di folla in preda al panico. manunza4La metamorfosi nello stile è sintomo d’orientamento verso certi valori umani che l’artista vede intorno a sé corrompersi e che d’ora in avanti cercherà idealmente di recuperare con un linguaggio visivo nuovo, sia pur coerente nella scelta antitradizionalista. Il grottesco cede presto alla quietezza della forma, quasi alla contemplazione; il cromatismo offuscato si schiarisce nella serenità di colorazioni nette ma serene; i tratti deformati si addolciscono senza perdere il taglio sintetico e angoloso dei profili. L’apparato scenico perde drammaticità, acquista spazio fisico e pacatezza nel respiro psicologico. In questo rinnovamento dei canoni estetici Antonio Pala accentua temi che gli sono cari, dalla spiritualità religiosa (trasmessa per suggestive immagini e rappresentazioni sacre) alla simbologia letteraria (vedi la serie donchisciottesca), dall’interesse per la natura morta alla poesia dei paesaggi (barche, battelli, vedute di Cagliari). E dà vita a inediti contenuti, inventando un universo femminile che ha pochi confronti. Donne sensuali, donne sognatrici, donne forti, amazzoni e angeli, confuse tra realtà e mito, dalle espressioni impenetrabili, sfuggenti nel loro misticismo trascendente. Donne ambigue, silenziose, religiose e profane, raccontate in pose immobili e sguardi lontani, immerse in atmosfere irreali e rarefatte da cui emerge la forza arcana del fascino femminile. Un mondo alla Delvaux, a parte la lontananza di stile pittorico fra l’artista sardo e quello belga. Donne sole, oppure in gruppo ma chiuse in se stesse nella comune atmosfera di melanconia sognante. Una guarda lontano, una legge in una tranquilla stazioncina ferroviaria, altre suonano strumenti d’orchestra classica, altre ancora cantano davanti al leggìo – e sembra di udire melodiche polifonie dedicate alla divinità. Sono dappertutto, fra i porticati della città e sopra i tetti. L’angelo violinista accarezza le corde volteggiando in celesti onde di vento che si confondono con quelle del mare manunza5Così Cagliari è sospesa in un limbo luminoso di cielo terra mare, cullata e protetta dalle sue donne immaginarie. Pala vola anche lui, nell’idealizzare in termini fiabeschi figure e scene descritte con contorni netti e taglienti di un vago primitivismo che non esaspera le deformazioni; raccontate con il gusto dei colori tenui lusingati dalla ricchezza di luci e contrasti. E si libra così nel realismo del subconscio esprimendo attitudine a quel simbolismo di dimensione inconscia agganciato all’enigmaticità surrealista. Non è estraneo a tanta creatività lo spazio nuovo e stimolante che ha intanto conquistato a poche decine di metri dalla sua casa di piazza Gramsci. Negli anni Ottanta ha infatti rilevato un appartamento al piano terra di via San Lucifero; ha fatto abbattere i tramezzi e trasformato quei cento metri quadrati in un ambiente vasto, carico di oggetti, quadri, sculture, un eremo protetto e denso di vitalità intima, silenziosamente operativa. Ci si trova in perfetto agio, ci s’intrattiene mattina e sera da quando ha lasciato la scuola, disegna, scolpisce, dipinge. Ora sono più grandi le tele e (preferibilmente) le tavole sulle quali passa i pennelli. E’ in quell’oasi ovattata e inviolata – nel cuore di un quartiere vivace e congestionato dal traffico – che prende corpo un’opera fra le più belle e sorprendenti: è un grande Cristo in croce, di misure naturali, il fisico lacerato, il volto sofferente ma luminoso di serenità misericordiosa: un capolavoro di stretta aderenza realistica che trasmette spiritualità e commozione. Gliel’hanno chiesto a Laerru, l’ha scolpito nel legno con il talento comandato dal cuore e l’ha donato alla chiesa parrocchiale, che adesso vanta anche una Via Crucis di straordinaria efficacia artistica e religiosa: quattordici quadri, realizzati a olio e tecnica mista, che raccontano un Calvario d’impressionante angoscia, emozionante nel suo plastico linguaggio espressionista Con queste opere dell’anima Toeddu resta per sempre a Laerru, come non se ne fosse mai allontanato. Desiderava ritornarvi, forse, negli ultimi anni di maturità artistica che hanno prodotto una quantità massiccia di dipinti, sculture, disegni, inchiostri, tempere, carboncini e biacca, decollages, monotipi accuratamente lavorati al torchio, incisioni che sono ancor oggi scarsamente conosciuti nonostante il robusto spessore artistico e tecnico. manunza6 I misteri, 1987, linoleografia, 50 x 70 cm Venere, 1987, linoleografia, 50 x 70 cm Si può pensare che una forma di riservatezza mentale, magari timida modestia, abbia impedito all’autore di farle circolare perché entrassero nella storia della superba tradizione incisoria sarda. Poco viste, ma ci sono, e lasciano impronta quanto meno nei canali di quel collezionismo privato che spesso sfugge alle analisi critiche ufficiali. Certamente lui era conscio della qualità delle sue stampe, ma preferiva puntare soprattutto sulla forza espressiva dei lavori a olio, ed erano questi che affidava al gallerista Peppino Floris che ne capiva il valore e lo sosteneva nel difficile mercato artistico. Lo aveva capito subito, fin dai tempi della scuola sassarese, anche Mario Delitala. “Ha bisogno dell’elemento umano per ispirarsi”, scrisse molti anni fa in un’acuta pagina critica nella quale sottolineava la vigoria del gesto di pennellata, la “giusta misura espressiva senza concessioni alla retorica”, la “costante intesa fra disegno ed espressione” e la potenza del “ricreato attraverso le proprie emozioni”. Infatti: Antonio Pala ricreava la realtà soggettivandola e figurando l’invisibile. Era un intuitivo che si esprimeva con capacità innaturata. “Non mi propongo un tema”, ci disse una sera: “Ogni volta, stimolato da un pensiero, avvio un discorso e mi lascio condurre riflettendo sulle molteplicità e le suggestioni dell’occasionale argomento. Mi spinge la necessità di dipingere quello ch sento più che quello che vedo”. Indirizzo teorico solo apparentemente semplice. Per tradurlo nella pratica occorrono volontà, genialità, tecnica, esperienza, cultura, doti che lui concentrava in fatica. Faticava per ore, e anche si divertiva.